Negli ultimi decenni, l’interesse per i temi del neurosviluppo è notevolmente cresciuto, portando a una maggiore informazione e conoscenza. Parallelamente a questa crescita, si è assistito alla diffusione di termini già noti, di natura clinica, e di termini nuovi, che tentano di descrivere e dare un nome alle diverse esperienze legate al neurosviluppo.

Il termine “neurodiversità” inizia a diffondersi in ambienti attivi sui temi della salute mentale intorno alla fine degli anni ‘90. Il concetto, attribuito poi a Judy Singer e Harvey Blume, si riferiva alla variabilità insita in tutti i cervelli, paragonabile alla biodiversità. È dunque un’espressione che si riferisce ad un insieme di caratteristiche neurologiche presenti in natura e sottolinea che ogni cervello è unico e funziona in modo diverso.
Nonostante l’apparente somiglianza, il termine neurodivergente, attribuito a Kassiane Asasumasu, si riferisce invece a tutte quelle condizioni che in qualche modo divergono dalla norma. Si tratta di un termine che tenta di riappropriarsi della narrazione sulla propria diversità dalla norma, evitando termini e concetti clinici e medicalizzati.
Autismo, adhd e dsa sono quelle caratteristiche a cui ci si riferisce più spesso quando si parla di neurodivergenza.
Da un punto di vista sociale e in particolare in Italia, infatti, il termine viene utilizzato soprattutto per riferirsi al neurosviluppo, nonostante esso nasca per includere tutte le differenze, anche quelle acquisite nel corso della vita.
Neurodivergenza” è dunque un termine ombrello, che da solo è un concetto non ci dice nulla sulla condizione e sul funzionamento della singola persona. Può infatti includere persone con diverse diagnosi.

 

Qual è dunque l’utilità di questo termine?

La risposta risiede su più livelli.

  • Da un punto di vista scientifico, il paradigma della neurodivergenza è il punto di partenza per un dialogo che potrebbe portare ad una depatologizzazione di caratteristiche naturali e ad un tipo di ricerca partecipativa che tenga conto della neurodivergenza e della disabilità anche dal punto di vista di chi le vive sulla propria pelle.
  • Da un punto di vista sociale, l’accettazione di funzionamenti diversi, che non siano da guarire o eliminare, potrebbe portare a cambiamenti nel modo di gestire i rapporti e gli ambienti sociali, incoraggiando la creazione di ambienti più inclusivi e attenti alle necessità di sempre più persone.
  • Da un punto di vista personale, l’utilizzo del termine neurodivergenza potrebbe rappresentare un modo per riconoscersi in una comunità fatta di persone che non solo affrontano difficoltà e sfide simili, ma che guardano il mondo sotto una lente simile. Una comunità con cui confrontarsi e a cui e da cui ricevere supporto. È la possibilità di sentire un senso di appartenenza a una comunità e un’identità che va oltre la diagnosi, favorendo così il benessere psicologico e il supporto reciproco. Inoltre, in un mondo costruito sul binarismo di cosa è normale e cosa non lo è, presentarsi con un termine ombrello permette di sfuggire – almeno inizialmente – ai pregiudizi legati alle etichette diagnostiche.

Questo non vuol dire che la diagnosi sia da evitare, tutt’altro. Il processo diagnostico – e il suo esito – possono rappresentare un punto di svolta nel percorso di vita individuale. Una diagnosi che esamini a fondo le caratteristiche e il funzionamento della persona è un potente strumento di autoconsapevolezza e di validazione.

Un’approfondita e chiara comprensione delle conclusioni diagnostiche è quindi fondamentale: rappresenta il primo passo di un percorso individuale e sociale per riconoscersi e riscoprirsi come una persona con delle caratteristiche di cui è possibile prendersi cura e che possono essere valorizzate.

 

Come possiamo sostenere chi ha delle necessità che divergono da quella che oggi viene considerata norma?

Il primo passo è sicuramente l’ascolto. Fare domande, chiedere informazioni, ammettere di non sapere qualcosa. Mettersi nella posizione di ascoltare per capire e non per rispondere. Non sempre è necessaria una risposta concreta, a volte serve anche soltanto ascoltare le difficoltà, le paure, ma anche le vittorie e i motivi di gioia.
In un secondo momento poi, ascoltare, fare domande, informarsi, permette non solo di conoscere, ma anche di trovare insieme delle soluzioni pratiche.
Degli esempi potrebbero essere l’utilizzo della sintesi vocale per una persona con difficoltà nella lettura o magari l’utilizzo di auricolari appositi per la riduzione del rumore esterno per una persona molto sensibile ad esso.
L’importante è ricordare che le soluzioni esistono, ma sono fortemente personali ed è qui che è importante rimanere in ascolto delle necessità del momento, ma anche di come potrebbero cambiare nel tempo, per permetterne l’adattamento.

In conclusione, il paradigma della neurodivergenza rappresenta un’occasione per rivedere il modo in cui guardiamo e agiamo rispetto a concetti come quelli di “norma”, “diversità”, “intelligenza”, “competenza”, “disturbo”. Nella prospettiva di creare ambienti scolastici e lavorativi sempre più inclusivi e partecipativi, è necessario aprire e mantenere aperto un dialogo con tutte le persone e le comunità coinvolte. Imparare a rispettare e valorizzare le differenze vuol dire anche riuscire ad ascoltare chi quelle differenze le vive tutti i giorni, sia in termini di difficoltà che di potenzialità.

 

 

 

Bibliografia

  • Neurodivergente
  • Neurodiversity studies: a new critical paradigm
  • Experienced consequences of being diagnosed with ADHD as an adult – a qualitative study

 

 

 

A cura di: Elena Mannino, Psicologa – Centro di Apprendimento Anastasis

 

 

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